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Teatro Terapia

La teatroterapia (o Teatro Terapia) è una forma di arteterapia di gruppo sempre più diffusa e conosciuta anche dal grande pubblico. Da parte di alcuni psicologi e teatranti, in Italia come all’estero, è stato sviluppato negli ultimi anni un approccio originale che coniuga le teorie psicologiche e le prassi artigianali dell’allestimento scenico. Si definisce teatroterapia la messa in scena dei propri vissuti, all’interno di un gruppo, con il supporto di alcuni principi di presenza scenica derivati dall’arte dell’attore. Essa implica l’educazione alla sensorialità e alla percezione del proprio movimento corporeo e vocale; agisce attraverso la rappresentazione di personaggi extraquotidiani (principalmente improvvisati), ma implica un minuzioso lavoro pre-espressivo.  

L’obiettivo della seduta di teatroterapia è quello di rendere armonico il rapporto tra corpo, voce, mente nella relazione con l’altro, gli altri, sé stesso e la propria creatività interpretativa.
Gli effetti delle sedute di gruppo continuano a produrre risultati sul singolo anche dopo la seduta stessa, in quanto gli stimoli ricevuti entrano a far parte di un’esperienza profonda che la persona può integrare nella vita di tutti i giorni. La Teatroterapia non produce diagnosi, né interpretazioni psicologiche, ma rafforza nuove visioni di sé, pertanto non può sostituire cure psicoterapeutiche, ma le affianca.

Cosa succede nel momento magico (o deludente) in cui qualcuno dà vita ad un personaggio e cerca di coinvolgere il pubblico, di trascinarlo con sé entro un altro universo emotivo? Per secoli si è affrontato il problema affidandosi al mito della naturalezza: "l’attore deve immedesimarsi nelle passioni che rappresenta, solo così gli riuscirà efficace". La formulazione di questo assunto è antichissima; già Orazio scrive: "non basta che la poesia sia bella, bisogna che sia dolce e che trascini, a suo piacimento, l’animo degli ascoltatori". Rivolgendosi agli attori scrive: "i volti umani ridono con chi ride e piangono con chi piange. Se vuoi che io pianga, prima devi provare dolore tu: allora la tua sofferenza mi toccherà; ma se farai male la tua parte, mi addormenterò o mi metterò a ridere".

Per secoli domina un’idea di rispecchiamento, di mimesi naturale: l’attore cerca di sentire le emozioni che il testo suggerisce, così le può esprimere in modo da comunicarle al pubblico. Fu Diderot (1713-1784), scrittore filosofo francese, ad andare per primo contro corrente, sostenendo la tesi opposta: "l’attore - sostiene Diderot nel saggio critico 'Paradoxe sur le comedien' (pubblicato solo nel 1830) - è veramente grande solo quando resta privo di sensibilità e dirige il proprio corpo come fa il burattinaio con il burattino". L’attore diventa superiore, non solo all’uomo naturale, ma anche al personaggio delineato dal testo. Il testo teatrale è come una specie d’automa, che l’attore manovra e trasforma in qualcosa di nuovo. Il distacco emotivo e l’artificio diventano gli ingredienti fondamentali di quello che chiamiamo arte. Un altro momento di svolta, in direzione della modernità, è in genere individuato nel "sistema" ideato da Konstantin Stanislavskij (1863-1938): per gli attori si tratta di un metodo che ha esercitato una grossa influenza sulle esperienze teatrali delle avanguardie. Esso comporta un vero e proprio percorso, che coinvolge il corpo, la mente e l’etica stessa dell’attore. L’idea centrale è che si giunge a plasmare la mente, agendo sull’universo psichico dell’attore, così da risvegliare in lui una dimensione creativa, che darà nuovo spessore anche ai gesti e agli atteggiamenti del corpo. Il metodo Stanislavskij prevede un allenamento, grazie al quale l’attore diventa tramite creativo fra il testo teatrale e il pubblico. Questo si può realizzare grazie alla capacità dell’attore di creare con le immagini della fantasia. Immagini che, se da un lato sono ispirate al testo e quindi suggerite dall’autore, dall’altro si nutrono di un intenso lavoro personale fatto dall’attore stesso. "Continuate a concentrare l’attenzione sulle immagini che sono davanti agli occhi della vostra mente", dice Stanislavskij a proposito di come ci si prepara a recitare una scena particolare. "Formate i pensieri e le immagini della fantasia secondo il testo e le circostanze fornite dall’autore e dal regista. Ma siccome li avete fatti nascere entrambi – pensieri e immagini – dal vostro cuore, le parole e la verità che voi mettete in queste parole, proprio come se fossero la vostra vita, si fonderanno nel cerchio della vostra immaginazione e sulla scena" (L’attore creativo. Conversazioni al Teatro Bol’Soj, 1918-1922). Si tratta dunque di attivare una dimensione creativa della memoria, facendo leva sul fatto che "la mente di un attore e di un regista è una forza possente". Per riattivare le forze creative, per ritrovare il "tesoro" nascosto e renderlo visibile, bisogna che l’attore raggiunga una disciplina tale da porre ordine nella sua mente; questo significa riuscire a ricomporre i brandelli dei pensieri e delle emozioni, così da ricondurli entro contorni vivi e precisi, così da costruire immagini che si collochino in uno spazio interiore ordinato (quello che Stanislavskij chiama il "circolo creativo"). "Un saggio indiano – egli dice agli allievi– paragonò una volta la mente dell’uomo ad una scimmia… Ora, diceva il saggio, date da bere alla scimmia un po’ di vino. I suoi movimenti somiglieranno ai movimenti di una trottola. Supponiamo ancora che questa scimmia ubriaca sia punta da uno scorpione, essa somiglierà alla mente indisciplinata dell’uomo. Anche se la vostra mente non è indisciplinata a tal punto, in ogni caso assomiglia lo stesso ad un vento turbinoso. Date ad un uomo uno specchio magico in cui possa vedere i suoi pensieri: comunicati, interrotti e di nuovo lasciati cadere, simili ad una nave naufragata. Brandelli, schegge di alberi spezzati, chiodi che fuoriescono da scatole galleggianti, uomini pigiati su scialuppe, rottami, vestiti sparpagliati e così via. A tutto ciò assomigliano i pensieri di un principiante che non sa concentrare l’attenzione né tenerla fissa interamente su un oggetto".

Un ulteriore contributo sulla ricerca della verità scenica viene da Artaud, il quale nel teatro della crudeltà fa rivivere la parola attraverso la fisicità carnale dell’attore. L’attenzione è posta ora sull’azione, l’incontro fra interiorità corporea e comunicazione. Nell’azione fisica ed emotiva, attraverso il processo dell’improvvisazione, non c’è manipolazione, né finzione, non c’è costruzione di artificiosità. Il teatro delle passioni artificiali è abolito per un processo di creazioni le cui tappe sono:

* L’improvvisazione libera
* La formalizzazione dell’azione
* L’applicazione del testo all’azione

Il montaggio avviene come su pellicola cinematografica, dove nella fase 2 si imprimono le immagini e nella fase 3 il suono. Dopo di che si tagliano e si incollano le varie sequenze di fotogrammi. Questa metodologia è utilizzata dall'’Odin Teatret di Eugenio Barba.

La funzione terapeutica del teatro

Nella fase 1 la creatività dell’attore ha libero campo. Egli mostra il suo grado di scissione tra ciò che è, e ciò che vorrebbe essere. Questa scissione non va assolutamente negata, pena la caduta della creatività. Neumann nel suo libro "L’uomo creativo e la trasformazione", spiega che l’esperienza creativa non può esistere come qualcosa che ha relazione con il "superamento della scissione" operata dalla coscienza e con il ritrovamento della realtà originaria, poiché essa è in continua evoluzione. Improvvisando una scena, l’attore entra in contatto con la sua realtà originaria, il suo Sé profondo, ma non lo può afferrare né fissare in quanto esso è in continua trasformazione. Egli può, attraverso la momentanea scissione della personalità, intravederne l’altra immagine e farla sua nell’azione scenica. Il personaggio mostra così a chi osserva il riflesso del Sé dell’attore, della sua realtà originaria, quella che si dice essere vera. La scissione, la mancata fedeltà al sé quotidiano, quando si mostra nell’improvvisazione teatrale si pone come altro da sé, come stravolgimento di un qualcosa di statico ed è alla base d’ogni copione o elaborazione drammaturgica.

La scissione nell’Io dell’attore mostra aspetti che vanno ben al di là della sua individualità per abbracciare contenuti collettivi dell’esperienza umana. Per avere un buon impatto emotivo sul pubblico, il "mistero" che l'attore esprime deve rimanere tale. Se il mistero resta tale, il pubblico, per rispecchiamento, potrebbe avere la visione del mai visto prima. Il teatro gioca in occidente una funzione importante, in quanto rispecchia l’Io di un uomo che per costituzione psicologica è costretto a una personalità multipla, divisa tra molti personaggi da interpretare. La scissione è diventata nell’Io occidentale una funzione, una prestazione fisiologica e non più occasionale. "L’Io occidentale non ha memoria circa la nascita della scissione come dinamica difensiva (una reazione psichica per eludere un pericolo esterno), ma concepisce la scissione come norma permanente". Nel Trattato Italiano di Psichiatria , al capitolo "Modificazione dello Stato di Coscienza", si legge: "Caratteristica delle condizioni di coscienza normali è la capacità di scissione fra un Io osservante ed un Io osservato, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle sequenze temporali di eventi, sulle quali si è costruita l’identità personale…".

La dissociazione dalla sensibilità della coscienza e la formazione di un osservatore critico interno è affrontabile in sede teatrale dove il soggetto è messo continuamente in contatto con il corpo emotivo. Nel teatro, l’attore esplora la mancata unità con se stesso attraverso il lavoro su mente-corpo-azione. La questione della verità scenica è stata sollevata da Stanislavskij, ma è Grotowski che, attraverso una ricerca complessa sulle azioni vocali e corporee, giunge alla definizione dell’azione scenica come la qualità pura del vero Sé. Sin dalle origini la ricerca di Grotowski, regista polacco, ruota intorno a Stanislavskij che, nei primissimi anni del Novecento, cerca la via della realtà scenica attraverso uno scavo nella memoria emotiva dell’attore. Ma quello che più interessa inizialmente al regista polacco sono le ultime definizioni del "lavoro dell’attore su se stesso". Dunque l’analisi delle 'azioni fisiche', per cui l’interprete non deve tendere a rievocare dentro di sé un’emozione allo stato puro, ma capire quale effetto fisico ha l’emotività e come il moto interiore si trascrive nel gesto e nell’atteggiamento, tentando di ridefinire il movimento fisico generato dall’interno. Ma se in Stanislawskij tutto il procedimento era finalizzato a una comunicazione indirizzata verso lo spettatore e realizzata attraverso un personaggio, in Grotowski la ricerca si sposta sulla non necessità di un confronto esterno per dedicare la massima importanza al confronto interno senza un supplementare elemento di finzione. Così il procedimento non può che compiere una traiettoria all’inverso, tornando al mito, svelando i segni arcaici della cultura interiore, come un graffito ancestrale che si incide nella coscienza dell’attore. Grotowski non ha lasciato un metodo come fu per Stanislavskij, ma ha lasciato un percorso di ricerca, un procedimento.