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Responsabilità Sociale d'Impresa

Nella seconda metà degli anni '90, all'indomani del Summit di Rio (1992) e della stesura della Agenda 21, le Nazioni Unite invitarono le grandi aziende, particolarmente le imprese multinazionali, a definire accordi commerciali che contemplassero e tutelassero i diritti umani di base, quelli dei lavoratori e il rispetto dell'ambiente. Si intendeva, con questo, non solo la creazione di una piattaforma contrattuale equa ed ecologica ma anche l'avvento di un preciso impegno verso il mondo, la società umana globalizzata e l'ambiente che andava oltre la regolamentazione dei comportamenti. Il termine impiegato fu quello di Corporate Social Responsability, CSR, che in italiano diventa Responsabilità Sociale d'Impresa, RSI.

Molte aziende firmarono accordi con tutti i partner commerciali, dai principali clienti e fornitori ai subappaltatori di attività di servizio, affinché si garantissero degli standard etici di minima (rifiuto del lavoro minorile e delle condizioni di sfruttamento umano, pari opportunità etc). Fra i primi settori ad essere normati in tal senso, in Europa, è sicuramente doveroso ricordare il settore tessile che, per mezzo dell'associazione EURATEX, rappresentante europea di categoria, firmò un accordo sindacale in cui i diritti sopra ricordati venivano garantiti. L'Unione Europea iniziò ad elaborare una strategia di coinvolgimento delle aziende nel progetto RSI già a partire dal 1997: venne fondato infatti un organo di consulenza appositamente dedicato e nel luglio 2001 venne pubblicato il libro verde sulla Responsabilità Sociale d'Impresa, un documento destinato specificamente all'apertura del dibattito a livello europeo sulla RSI. Il Libro Verde fornisce le coordinate in base alle quali si intende muovere l'UE, e si dà già una prima definizione provvisoria - di RSI: un'adesione volontaria ad un insieme di norme comportamentali volte al miglioramento della società in generale e a partire dalla dimensione interna dell'azienda. Si individuano come stakeholders, come referenti della RSI, tutti i cittadini - nessuno escluso - che siano in qualche maniera toccati o implicati nelle azioni dell'azienda. In seguito al dibattito scaturito dall'uscita del Libro Verde, l'Unione Europea ha inoltre indetto un giro di consultazione a livello dei singoli paesi membri per mezzo di un Grand Tour in cui una fiaccola viene spostata da un paese all'altro in occasione di importanti dibattiti e di precisi impegni da parte dei governi. La tappa italiana che si è tenuta a Milano il 10 febbraio di quest'anno, presso Assolombarda, è stata significativa dal punto di vista del futuro del nostro paese in merito alla RSI. Il Governo ha preso infatti la decisione di preparare entro la metà del 2003 un profilo di standard legali per cui un'azienda si può definire Socialmente Responsabile. Si intende con questo che, per definirsi tale, l'azienda dovrà farsi certificare. Questo aspetto giudicato quanto meno delicato da molte delle piccole e medie imprese italiane, presenti anche in sede di conferenza, ha fatto sì che si ipotizzassero due linee diverse di certificazioni: una concessa dallo stato, l'altra, forse più leggera, per autocertificazione. In attesa della conclusione dei lavori della commissione governativa per la definizione degli standard di certificazione per il nostro Paese, il Libro Verde costituisce sicuramente un importante strumento di confronto e di ispirazione in merito alla RSI.

Ma cosa altro è la RSI? Per chi siede nei Consigli di Amministrazione, la Responsabilità Sociale è un importante strumento di governo dell’Impresa, che migliora performance finanziarie, processi di coesione interna, gestione operativa. Per il marketing è una nuova via al posizionamento dei prodotti e del marchio. Per i cittadini e i consumatori la Responsabilità Sociale d’Impresa è valore.
Per definire cosa sia la responsabilità sociale d’impresa , da un lato, e cercare di comprendere le ragioni per le quali questo tema sta entrando così prepotentemente nella riflessione di manager, imprenditori e consulenti aziendali, dall’altro, esiste un discorso centrato sul tema della legittimazione etica e sociale del fare impresa. Fino agli anni 70 era universalmente accettato che l’unica legittimazione etica e sociale del fare impresa fosse quella di operare per la massimizzazione del profitto nel rispetto delle regole del gioco. Questo fatto, di per se costituiva un indicatore del migliore uso possibile delle risorse e, quindi indirettamente di un operare per il bene comune. Questa sostanziale sovrapponibilità della catena del valore economico e del valore sociale del fare impresa, entra in crisi con l’avvento dellla società post-fordista, ovvero, partendo da un’altra prospettiva, per effetto dei processi di globalizzazione dell’economia e dei conseguenti processi di delocalizzazione della produzione, delle persone e delle culture.

Esistono tre ragioni fondative, in quanto basate sulla considerazione di elementi non transitori, di questo cambiamento radicale del modo di intendere la responsabilità sociale d’impresa.

La “responsabilità sociale del cittadino-consumatore”

La prima causa andrebbe addebitata all’emergere di un tema nuovo: quello della “responsabilità sociale del cittadino-consumatore”, La trasformazione del consumatore da ricettore passivo a soggetto attivo, cioè a consumatore critico, che con le sue scelte intende contribuire a “costruire” l’offerta: in altre parole a questo nuovo consumatore non basterebbe più il parametro del rapporto qualità prezzo; la diffusione su larga scala di nuove sensibilità verso la sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo, stanno trasformando il consumatore da soggetto passivo in attore consapevole e attivo nella catena del valore economico, in cittadino-consumatore che “vuole sapere come quel certo bene è stato prodotto e se nel corso della sua produzione l’impresa ha violato, in tutto o in parte i diritti fondamentali della persona che lavora”: Questa nuovo atteggiamento del “cittadino-consumatore” si traduce in due diversi tipi di comportamento:

a. La penalizzazione di imprese che hanno operato evidenti violazione di diritti umani fondamentali (p.es. Nike, Reebok, Nestlè, ecc.);
b. La crescente disponibilità a favorire, anche attraverso la scelta di prodotti con prezzi maggiorati, imprese impegnate nel sociale.

Sarebbero esempi di questo orientamento, lo sviluppo dell’offerta sul mercato dei prodotti cosiddetti “biologici”, le nuove forma turismo responsabile e/o solidale, il crescente collegamento, nel marketing di prodotti di largo consumo, con iniziative di rilevanza sociale come la ricerca medica relativa a malattie a forte impatto sociale ed emotivo, o di solidarietà con popolazioni investite da disastri naturali o sociali. Secondo alcuni, poi, questo orientamento a favorire imprese socialmente impegnate non riguarderebbe solo i consumatori ma anche i finanziatori come mostra lo sviluppo, per esermpio, della finanza etica.

La delocalizzazione dell’impresa

La seconda causa sarebbe da addebitare alla destrutturazione dell’attività produttiva e alla conseguente de-localizzazione delle imprese. La tradizionale corrispondenza fra ”fabbrica” e “territorio” e il rapporto di controllo e mutuo aiuto, formale e informale, fra l’imprenditore e la “sua gente” rendeva superfluo il tema della responsabilità sociale d’impresa. Se prima la legittimazione sociale dell’impresa si fondava sulla contestuale creazione di profitto e di benessere diffuso per una comunità ben identificata, nel tempo dell’impresa globalizzata non legata a nessun contesto territoriale e sociale specifico, si rende necessario acquisire questa legittimazione, presso i cosiddetti “stakeholders, con nuovi strumenti quali il bilancio sociale, il bilancio ambientale, il cause-related marketing, la comunicazione mediatica e pubblicitaria, la certificazione di eticità, etc.

I cambiamenti organizzativi interni all’impresa

La terza causa e da ricercarsi nei cambiamenti che hanno investito l’organizzazione interna delle imprese, nel passaggio alla cosiddetta fabbrica post-fordista; cambiamenti che hanno conseguito l’effetto di depotenziare l’efficacia dei tradizionali strumenti fidelizzazione all’azienda, di controllo dei comportamenti e di incentivazione della produttività dei collaboratori. Secondo molti autori la legittimazione sociale acquisita attraverso il coinvolgimento dell’azienda in attività sociali e l’adozione di comportamenti socialmente responsabili, costituirebbe oggi il più potente strumento di potenziamento della coesione interna. Attraverso la creazione di “corporate culture”, centrate su valori forti e su comportamenti ad elevata legittimazione sociale, le aziende ottengono identificazione e comportamenti altamente collaborativi dai propri dipendenti. (esempi citati in letteratura sono: la Coop, la Merloni, la Hemkel Italia, la catena Naturasì, la Società Autostrade, l’Unipol, la Telecom, etc.).

Infine sembra utile ricordare che sono considerati indicatori di agire etico:
* l’attivazione di pratiche e strumenti finalizzati ad instaurare un rapporto con l’insieme dei cosiddetti stakeholders, basato sulla fiducia, la correttezza e la trasparenza;
* un atteggiamento sempre più attento alle risorse umane impiegate (rispetto dei diritti dei lavoratori, assenza di forme di discriminazioni sessuali, religiose e razziali, tutela della salute, promozione delle risorse umane e del capitale intellettuale e umano interno all’azienda);
* il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani;
* l’impegno diretto in iniziative finalizzate a contribuire al miglioramento della società e alla tutela dell’ambiente (investimento nella cultura, nella ricerca, nella tutela della salute, in iniziative di solidarietà, etc.).

Così posta la tematica dell’agire etico dell’impresa diviene, e di fatto sta diventando, un tema forte che investe direttamente il problema della competitività delle imprese. Come mostrano i casi sopra citati (Nike, Reebok, Nestlè, ecc.), l’impresa non può sopravvivere e svilupparsi senza legittimazione sociale e, se hanno un senso i ragionamenti sopra esposti, la legittimazione oggi non può essere ottenuta se non dimostrando pubblicamente di tenere conto nella propria attività dei valori condivisi nell’ambiente sociale in cui opera. D’altra parte il tema dell’agire etico non ammette troppe furbizie e un approccio puramente strumentale che, pur sempre possibile, avrebbe, una volta scoperto il gioco, degli effetti oltremodo devastanti sull’immagine dell’azienda.