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Stadi di Sviluppo

L'idea degli stadi di sviluppo è stata elaborata nella prima metà del XX secolo osservando l'esperienza storica dei paesi capitalisti ed è legata originariamente agli studi di Alexander Gerschenkron (Russia, 1904-1978) e Walter W. Rostow (Stati Uniti, 1914). Nata come analisi storica ed economica dell'Europa occidentale e del Nord America, questa visione è stata poi utilizzata anche come linea guida per la soluzione dei problemi economici dei paesi del Terzo Mondo, presupponendo che lo sviluppo economico sia un fenomeno che dipende da fattori generalizzabili e realizzabili in tutti i paesi e popolazioni. Questa visione ha influenzato profondamente il modo di pensare di studiosi, uomini politici e dell'opinione pubblica per gran parte del XX secolo. E' utile sottolineare che da essa è nata buona parte della terminologia di uso corrente, come paesi arretrati rispetto a paesi avanzati, paesi in via di sviluppo rispetto a paesi sviluppati. Oggi paesi industrializzati è sinonimo di paesi ricchi, e l'industrializzazione è l'elemento fondamentale dell'idea più generale di modernizzazione dell'economia e della società come prospettiva per i paesi del Terzo Mondo.

Industrializzazione

Con questo termine si indica una pluralità di fenomeni concomitanti:

un alto e prolungato tasso di crescita della produzione di beni materiali e manufatti industriali, e del reddito pro-capite;
una quota crescente della produzione totale dovuta al settore industriale, a scapito del settore agricolo;
la trasformazione della maggior parte della popolazione lavorativa in operai industriali, impiegati in fabbriche, con la conseguente riduzione di lavoratori agricoli e artigiani;
la concentrazione della popolazione vicino agli insediamenti industriali, generalmente grandi città, e la diffusione di stili di vita e di consumo legati ai ritmi e alle esigenze urbane.

L'idea di una stretta relazione tra crescita economica e industrializzazione è stata suggerita dal fatto che tra l'inizio della rivoluzione industriale nella seconda metà del XVIII secolo e fino alla metà del XX secolo, i maggiori incrementi di produzione e produttività nei paesi dell'Europa occidentale e del Nord America sono stati realizzati nel settore industriale. Al contrario, nella maggior parte dei paesi a basso reddito e a bassa crescita il settore industriale era molto limitato e tecnicamente arretrato. Secondo la teoria classica della crescita, attraverso la promozione degli investimenti nel settore industriale i paesi più poveri come reddito pro-capite avrebbero raggiunto quello dei paesi più ricchi. I limiti di questa visione risultarono evidenti a partire dagli anni 1970, quando gli sforzi tendenti alla rapida industrializzazione nella maggior parte dei casi non produssero né crescita economica duratura, né una riduzione sostanziale dei divari tra paesi ricchi e poveri. I casi di successo si verificarono solo in paesi relativamente piccoli ed omogenei nel Sud-Est asiatico (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Malesia, ecc.)- tanto che venne coniato il termine di paesi di nuova industrializzazione (in inglese NIC, Newly Industrialized Countries)- e in certa misura in Cina. I maggiori paesi dell'America Latina - Messico, Argentina, Brasile, Cile - ottennero risultati contrastanti e problematici, e nulla di apprezzabile sorse nell'Africa Sub-Sahariana. L'industrializzazione può fallire quando la crescita del capitale fisico e del progresso tecnico nel settore industriale rimane isolato dagli altri fattori di crescita economica, in particolare legati a:
qualità degli investimenti (abitazione, trasporti, telecomunicazioni);
fattori immateriali (istruzione, salute, sicurezza, e in genere qualità del capitale umano);
fattori sociali e politici;
compatibilità ambientale e adeguato sviluppo agricolo.

In mancanza di queste condizioni, non facilmente identificabili e riproducibili, l'industrializzazione può rivelarsi non solo inefficace in termini di crescita economica, ma addirittura nociva socialmente a causa dei suoi imponenti e profondi effetti collaterali Raul Prebish (Argentina, 1901-1988), Celso Furtado, Andre Gunder Frank. In America Latina e in Africa Sub-Sahariana negli anni 1960-70 si sono avute esperienze particolarmente negative segnate dai seguenti fenomeni:
aumento acuto delle differenze economiche tra le classi sociali proprietarie di industrie e terreni e quelle di operai e contadini;
dipendenza dall'estero quanto all'importazione di beni di consumo per le classi superiori (in America Latina, borghesia compradora) e di prodotti agro-alimentari in seguito all'abbandono delle campagne, con conseguenti problemi della bilancia dei pagamenti internazionali;
urbanizzazione nei centri industriali, con un peggioramento delle condizioni di vita sia nelle città che nelle campagne; molte megalopoli povere del Terzo Mondo (Bombay, Calcutta, Nairobi, Lima, Città del Messico) sono nate in questo modo e costituiscono delle vere e proprie catastrofi economiche, sociali ed umane;
gravi tensioni sociali e politiche, sfociate tipicamente in regimi antidemocratici o dittature violente.

 

Sviluppo agricolo

La visione più comune degli stadi di sviluppo concepisce l'esistenza di uno stadio iniziale dell'economia in cui prevalgono le attività agricole precedentemente alla fase dell'industrializzazione. Il settore agricolo è stato spesso identificato come causa della persistenza dell'arretratezza tecnologica, come un vincolo allo sviluppo industriale, come un settore perdente nella competizione per il commercio internazionale. In realtà, studi più accurati, tra cui vanno menzionati quelli originari di Arthur W. Lewis (Giamaica, 1915), hanno messo in luce le interrelazioni complesse tra industrializzazione e sviluppo agricolo. In Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, nel XVIII e XIX, e poi in Canada e Australia, l'industrializzazione ha proceduto di pari passo con l'aumento della produzione agricola e del livello di vita nelle campagne. La sottovalutazione del ruolo dello sviluppo agricolo ha contribuito al fallimento di molte politiche di sviluppo sotto molteplici aspetti:
Sono stati accentuati gli effetti negativi dell'industrializzazione, venendo a mancare un adeguato rifornimento di derrate alimentari e prodotti di base a buon mercato per le città e impoverendo le masse urbane.
Le cattive condizioni di vita delle popolazioni agricole non hanno creato una sufficiente domanda interna di prodotti industriali, e hanno accentuato il fenomeno della urbanizzazione con l'ulteriore aumento delle masse urbane povere.
Lo spopolamento delle campagne ha accentuato lo stato di arretratezza e improduttività del settore agricolo, cui va aggiunto il peggioramento delle condizioni ambientali tra cui ad esempio la sterilità dei terreni o desertificazione.

Dagli anni 1980, sia le organizzazioni economiche internazionali sia molti governi hanno prestato maggiore attenzione al settore agricolo come fattore di sviluppo o addirittura come alternativa al modello dell’industrializzazione. L'importanza delle riforme agrarie è stato oggetto di rinnovati studi e indicazioni per i governi, Joseph E. Stiglitz (Stati Uniti, 1943). Si sono ottenuti significativi successi nell'Africa mediterranea, in Cina e in India, legati a riforme agrarie tendenti ad elevare e stabilizzare la produzione agricola e in primo luogo la fornitura di derrate alimentari, mediante
politiche di incentivi per la residenzialità delle popolazioni rurali;
valorizzazione e salvaguardia delle produzioni locali per il mantenimento dell'equilibrio agro-alimentare;
introduzione di tecniche agricole appropriate e forme di organizzazione economica di proprietà diffusa o di tipo cooperativo;
interventi di agevolazione sul piano finanziario per l'acquisto di terreni, abitazioni e mezzi di produzione.

La rinnovata attenzione al settore agricolo e l'attuazione delle riforme agrarie hanno trovato ampio appoggio e sostegno progettuale e tecnico nelle organizzazioni non governative, e nei movimenti civili promotori della finanza etica e del commercio equo e solidale.