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Crescita e Sviluppo

Crescita e sviluppo non sono sinonimi. La crescita nella sua accezione economica è l'aumento di beni e servizi prodotti dal sistema economico in un dato periodo di tempo. Lo sviluppo è una vasta branca delle scienze sociali che nasce nel preciso contesto storico-politico del secondo dopoguerra. Secondo una distinzione comune, la crescita viene riferita alla quantità di beni e servizi disponibili, mentre lo sviluppo comprende anche elementi di qualità della vita di natura sociale, culturale e politica.

La crescita economica è un concetto riferito alla capacità di un sistema economico di incrementare la disponibilità di beni e servizi atti a soddisfare il fabbisogno di un data popolazione. Si suppone che la disponibilità di beni e servizi debba aumentare nel tempo, in quanto tendenzialmente cresce la popolazione e con essa la domanda di beni. La crescita economica è l'indicatore economico maggiormente utilizzato dagli economisti, dai governi e dalle organizzazioni economiche internazionali. La crescita economica è spesso associata al benessere della popolazione. Tuttavia, la relazione tra le misure delle crescita generalmente in uso e il benessere è molto complessa e controversa. Analogamente, si tende a considerare la crescita economica come sinonimo di sviluppo. Ma lo sviluppo sia un concetto più ampio di quello di crescita economica.

La misura della crescita economica più semplice e più utilizzata è il tasso di crescita annuale del prodotto interno lordo pro-capite. Tale misura combina e sintetizza diversi indicatori.
Il prodotto interno lordo (PIL) misura il valore totale dei beni e servizi prodotti in un anno (vedi produzione e produttività). Il livello del PIL annuale in un sistema economico dipende fondamentalmente dalla sua dotazione di risorse economiche o fattori produttivi: l'ambiente (i fattori disponibili in natura), il capitale fisico (i fattori a loro volta prodotti) e il capitale umano (i fattori facenti capo alle facoltà umane presenti nella popolazione, che nella forma più semplice consiste della forza lavoro ossia il numero di individui disponibili al lavoro nelle specifiche condizioni sociali e legali).
La relazione che esiste tra il livello delle risorse economiche e il livello del PIL si dice produttività, la quale può essere misurata per ciascun fattore produttivo o per tutti i fattori insieme. Di conseguenza, i sistemi economici possono un produrre un PIL più o meno elevato non solo in dipendenza della quantità delle risorse economiche, ma anche in dipendenza della loro produttività che, in senso lato, dipende dallo loro qualità.
Il PIL pro-capite è il rapporto tra il PIL e la popolazione residente nel paese, cioè misura la produzione disponibile per ciascun membro della popolazione. Generalmente, il PIL pro-capite è utilizzato come base di calcolo del reddito pro-capite. Le organizzazioni economiche internazionali classificano i paesi in tre gruppi principali: paesi a basso reddito, a medio reddito, ad alto reddito.
Infine il tasso di crescita annuale si ottiene come variazione percentuale del PIL pro-capite di un dato anno rispetto a quello dell'anno precedente. Un'utile approssimazione del tasso di crescita del PIL pro-capite è data dalla formula seguente: TASSO DI CRESCITA DEL PIL - TASSO DI CRESCITA DELLA POPOLAZIONE. Questa formula mette in evidenza come la parte della produzione che di anno in anno è disponibile per ciascun membro della popolazione dipende dalla capacità del sistema economico di tenere il passo con l'incremento demografico. La disponibilità di beni e servizi per ciascun membro della popolazione aumenta solo se il tasso di crescita del PIL è maggiore del tasso di crescita della popolazione.

Esistono differenze molto forti dei tassi di crescita del PIL pro-capite nel mondo. Uno dei numerosi paradossi che si presentano nell'economia mondiale è che spesso i paesi con un alto tasso di crescita della popolazione hanno anche un basso tasso di crescita del PIL, e viceversa. Questo significa che la disponibilità di beni e servizi pro-capite in un paese "povero" (con un basso PIL pro-capite)tende a ridursi, mentre in un paese "ricco" (con un alto PIL pro-capite) tende ad aumentare. Dunque la differenza di disponibilità di beni e servizi tra chi vive nei due gruppi di paesi tende ad allargarsi, come si è verificato nel corso di questo secolo. Negli ultimi cinquant'anni questo problema non ha avuto una soluzione soddisfacente su scala globale nonostante sia stato al centro dell'attenzione e dell'azione di governi, organizzazioni non governative e organizzazioni economiche internazionali, come mai si era verificato in precedenza. Nel 1960 il PIL pro-capite dei paesi ad alto reddito era circa 26 volte più grande di quello dei paesi a più basso reddito (6448 contro 247 dollari). Nel 1995 il multiplo era di circa 57 volte (14473 contro 254 dollari), ossia la distanza è più che raddoppiata. I paesi del Nord Africa, Medio Oriente e Africa Sub-Sahariana hanno registrato una crescita media annua del PIL intorno al 2% non molto lontano dal 2,7% dei paesi ad alto reddito. Ma la loro popolazione è cresciuta ad un ritmo medio annuo molto superiore, circa 2,8% contro 0,6% dei paesi ad alto reddito. Di conseguenza i loro abitanti hanno subito una riduzione del PIL pro-capite. Negli ultimi vent'anni solo i paesi dell'Asia orientale e meridionale hanno ottenuto una sensibile crescita annua del PIL pro-capite.

La crescita economica dipende da numerosi fattori e da cause complesse che costituiscono una delle materie di studio fondamentali per la scienza economica. Il primo trattato dell'economia moderna, pubblicato nel 1774 dal filosofo Adam Smith (Scozia, 1723-1790), s'intitola Un'indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni, e si occupa proprio delle differenze nella ricchezza delle nazioni, con spunti validi ancora oggi. Le teorie e le politiche della crescita che oggi sono maggiormente utilizzate fanno riferimento a due principali tipi di fattori: fattori strettamente economici, fattori extra-economici e istituzionali. Le teorie della crescita economica in senso stretto che sono attualmente prevalenti sono state avviate negli anni 1940-50 [Roy F. Harrod (Inghilterra, 1900-1978), Ragnar Nurkse (Estonia, 1907-1959), Robert M. Solow (Stati Uniti, 1924)], sebbene abbiano le proprie radici nelle analisi degli economisti classici della rivoluzione industriale [David Ricardo (Inghilterra, 1772-1823)]. Il punto di vista degli economisti è che l'incremento demografico della popolazione è un dato non direttamente controllabile, e quindi il problema principale, per raggiungere un maggior PIL pro-capite, è di ottenere un adeguato tasso di crescita del PIL . In prima approssimazione il tasso di crescita del PIL può essere scomposto in tre elementi: AUMENTO DELLA PRODUTTIVITA' + AUMENTO DEL CAPITALE FISICO + AUMENTO DELLA FORZA LAVORO. In genere, le politiche cosiddette "classiche" a favore della crescita economica puntano sui tre elementi evidenziati sopra. Poiché nei paesi poveri solitamente vi è un'eccedenza di popolazione disponibile al lavoro, le politiche vengono concentrate
sull'aumento della produttività, mediante interventi a favore del progresso tecnico, partendo dal presupposto che una delle cause della bassa crescita economica stia nell'arretratezza tecnica, sia nel settore industriale, sia in quello agricolo;
sull'aumento del capitale fisico, interventi favorevoli alla formazione del risparmio, partendo dal presupposto che esso sia la fonte dell'investimento in capitale fisico da parte delle imprese, sia attraverso la riforma del mercato finanziario (vedi mercati finanziari) interno, sia attraverso l'apertura ai mercati finanziari internazionali.

Un effetto importante di questi interventi sarebbe la cosiddetta convergenza, vale a dire il fatto che i paesi con un PIL pro-capite basso dovrebbero crescere più rapidamente dei paesi con un PIL pro-capite più alto, dal momento che nei primi la convenienza a risparmiare e ad investire è maggiore che nei secondi. Purtroppo, è proprio la convergenza a non essersi realizzata in misura soddisfacente, mettendo in discussione questa visione classica della crescita. Gli sviluppi più recenti degli studi sui fattori economici della crescita ne hanno individuati altri, più articolati e complessi, tra cui è importante ricordare i seguenti, in quanto hanno modificato le politiche per la crescita economica nell'ultimo decennio.
L' interazione tra investimento in capitale fisico e progresso tecnico. Vi sono degli investimenti che consentono un duraturo aumento del tasso di crescita, in quanto generano un aumento della produttività del sistema economico nel suo complesso, non solo un aumento di produzione nel singolo settore o impresa [Nicholas Kaldor (Ungheria, 1908-1986), Kenneth J. Arrow (Stati Uniti, 1921)]. Investimenti di questo tipo sono di particolare natura, come quelli infrastrutturali (ponti, strade, porti, aereoporti, etc.) o quelli in telecomunicazioni (telefoni, informatica, satelliti, etc.). Di conseguenza, è importante non solo la quantità ma anche la qualità degli investimenti.
L'interazione tra produttività e capitale umano. Come insegna l'esperienza fallimentare di molti paesi arretrati, dove si è tentato di trapiantare tecnologie avanzate, i frutti della maggior produttività di questi investimenti possono essere colti solo se nel sistema economico nel suo complesso esiste ed è diffuso un adeguato livello di conoscenze e competenze tecniche [Albert O. Hirschman (Germania, 1915)]. Quindi è stato posto in luce un altro tipo d'investimenti strategici per la crescita, i cosiddetti investimenti in capitale umano [Robert E. Lucas (Stati Uniti, 1937)]. Si tratta di tutte le risorse impiegate per accrescere la cultura, le conoscenze e le competenze tecniche della popolazione su vasta scala.

La comprensione del ruolo dei fattori immateriali nei processi di crescita ha allargato la ricerca e gli interventi verso ambiti non strettamente economici, come:
la disponibilità e le caratteristiche del capitale umano;
l'organizzazione del sistema economico e i fattori sociali e politici che lo condizionano;
in particolare, le condizioni sopracitate possono favorire oppure sfavorire la nascita di un sistema economico predisposto alla crescita grazie ad un'appropriata definizione ed attuazione dei diritti economici e un adeguato grado di equità.

La gran parte dei paesi con PIL pro-capite medio-basso che crescono troppo lentamente non sono uniformemente poveri al proprio interno, ma presentano forti disparità economiche, rigide divisioni in classi sociali, gravi fenomeni di emarginazione rispetto alle opportunità di istruzione e di lavoro. Dunque non esiste un unico modello di crescita valido per tutti i paesi, popoli e culture, né la crescita economica è un frutto di soli fattori economico-quantitativi. L'attenzione ai fattori extra-economici della crescita è stata sviluppata per molto tempo in parallelo o in contrasto con le teorie accademiche, ed è stata fatta propria dalle Organizzazioni Non Governative (ONG). Negli anni 1990 questa visione ha cominciato ad influire sull'impostazione anche delle politiche attuate e raccomandate da organizzazioni ufficiali, come la World Bank (Banca Mondiale) e lo UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo). Sono stati ridimensionati o abbandonati gli interventi con massicci investimenti quantitativi nel settore industriale e trasferimenti di tecnologie avanzate, mentre sono stati raccomandati interventi più capillari, di minor scala ma a maggior diffusione sociale, attenti ai fattori qualitativi della crescita messi in evidenza sopra. Va anche ricordato un consistente movimento di studiosi e di ONG che propongono non tanto nuove politiche per la crescita, ma una critica radicale dell'idea che la crescita economica, e in generale le idee di sviluppo o progresso propri della cultura occidentale, possano offrire soluzioni desiderabili ai problemi del Terzo Mondo. Questa visione critica si fonda sul riconoscimento dell'esistenza, ma anche della desiderabilità, di limiti dello sviluppo, principalmente di tipo naturalistico-ambientale e di tipo culturale.

Quale sviluppo?

“Il diritto allo sviluppo è un diritto inalienabile dell’uomo in virtù del quale ogni essere umano e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale, politico nel quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente realizzati, e di beneficiare di questo sviluppo”. Declaration on the Right to Development, General Assembly Resolution 41/128, 4 December 1986.

Il punto di partenza riguardo allo sviluppo è un dato di fatto: la diseguaglianza tra Nord e Sud del mondo. Se da una parte ci sono Paesi che godono di un sostanziale benessere economico e sociale, dall’altra ci sono i così detti Paesi in Via di Sviluppo, dove spesso la popolazione non ha accesso nemmeno ai beni essenziali, come il cibo e l’acqua. Il totale della popolazione mondiale è di circa 6 miliardi di persone, di questi 6 miliardi, più di 1 miliardo lotta quotidianamente per non morire di fame e quasi 3 miliardi sopravvivono a stento. A questo si aggiunga un dato forse già noto, ma su cui occorre riflettere: il 20% del totale della popolazione mondiale consuma l’80% delle risorse del nostro pianeta. Per sviluppo intendiamo la creazione di una serie di condizioni affinché i Paesi più poveri siano messi nella condizione di superare queste diseguaglianze e, quindi, di affrancarsi dalla povertà. Ma occorre sottolineare una cosa importante, il concetto di sviluppo meramente economico è stato da tempo superato, così come è stato superato l’approccio che vedeva nel semplice trasferimento di tecnologie e capitali nei paesi Poveri la chiave dello sviluppo. Oggi il concetto di sviluppo generalmente accettato è quello di sviluppo umano, concetto che, se non esclude del tutto il concetto di sviluppo economico, non si riduce però a questo unico aspetto. Infatti, l’approccio allo sviluppo umano trova il suo fondamento nella convinzione che debbano essere ampliate le opportunità a disposizione dei singoli individui che appartengono ai Paesi più poveri, attraverso la formazione ed il potenziamento delle capacità umane. Ogni individuo, secondo questo approccio, deve essere messo nella condizione di condurre una vita sana, di acquisire competenze e di accedere alle risorse necessarie per condurre una vita degna e per contribuire allo sviluppo del suo Paese. I principi fondamentali su cui si basa questo approccio sono quattro.
Eguaglianza, perché lo sviluppo umano deve essere un processo di ampliamento delle opportunità per tutti, senza alcuna discriminazione.
Sostenibilità, il processo di sviluppo deve autorigenerarsi in modo tale da garantire le basi per il suo perdurare nel tempo e, quindi, permettere a tutte le generazioni di beneficiarne. Un tema attuale è quello della sostenibilità ambientale: il processo di sviluppo non deve compromettere il nostro ecosistema e deve quindi essere armonizzato con i mezzi che offre la natura e, al tempo stesso, esserne rispettoso.
Partecipazione, questo principio è fondamentale nel contesto dello sviluppo umano. Partecipazione, intesa in questo caso in senso lato e non solo riferito al concetto di partecipazione politica, significa che tutti gli individui devono essere coinvolti in profondità nei processi economici, sociali, culturali e politici che li riguardano. La partecipazione è una garanzia della sostenibilità del processo di sviluppo, perché solo attraverso la partecipazione gli individui possono essere artefici del loro futuro e moltiplicatori di sviluppo.
Produttività; per garantire uno sviluppo che non sia distorto, occorre che gli individui siano messi in condizione di partecipare ai processi economici in maniera attiva e, in particolare, devono essere messi nella condizione di accedere ad un impiego remunerato per poter soddisfare i bisogni fondamentali.

La disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo, la convinzione che questa disparità sia di fatto un’ingiustizia, così come la consapevolezza che un mondo in cui ci sia una più equa ripartizione della risorse e in cui tutti abbiano le stesse possibilità per sviluppare le proprie potenzialità sarebbe un mondo più sicuro, stanno alla base della nascita e della crescita della solidarietà internazionale. Appare quindi evidente come questo approccio non sia meramente caritativo: la solidarietà internazionale sta assumendo sempre di più la connotazione di un vero e proprio dovere giuridico, ma al tempo stesso rappresenta anche un investimento in un mondo più giusto, e quindi, più pacifico e sicuro. Questa argomentazione è quanto mai attuale, se pensiamo alle tensioni politiche internazionali che stiamo vivendo oggi. Occorre però chiarire un punto: perché cooperazione allo sviluppo? Il termine cooperazione implica un’interazione tra due soggetti per il raggiungimento di uno scopo, che nel nostro caso è proprio lo sviluppo. Il termine cooperazione implica quindi che il processo di sviluppo non deve e non può essere promosso e realizzato unilateralmente: i soggetti coinvolti devono quindi provenire sia dai Paesi più ricchi, in virtù del principio di solidarietà di cui si parlava sopra, ma devono essere coinvolti anche i soggetti che appartengono al Paese beneficiario, sia per poter individuare al meglio gli interventi da realizzare sia per garantire che detti interventi siano duraturi e rispettosi della cultura locale. Esistono diverse tipologie di cooperazione internazionale, in generale se ne possono individuare due grandi gruppi. Da una parte esiste la cooperazione governativa, che a volte può essere guidata anche da principi non meramente solidaristici quanto piuttosto da scelte politiche. Un aspetto importante e tuttora oggetto di un acceso dibattito è quello dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS), che prevede che i Paesi Più ricchi destinino una parte del loro prodotto interno lordo (PIL) per favorire lo sviluppo nelle zone più povere del mondo. La percentuale che si chiede agli Stati più ricchi di destinare a tal fine è lo 0,7% del PIL, anche se attualmente si raggiunge solo il lo 0,2%. Un’altra forma di cooperazione è quella non governativa, portata avanti da quella parte della società civile. Un esempio concreto in questo senso è rappresentato dal mondo delle ONG, Organizzazioni non Governative. Questi organismi hanno diversi finanziatori, tra cui privati, ma anche istituzioni (come il Governo o l’Unione Europea).

 

Economia dello sviluppo

L'economia dello sviluppo nasce nel secondo dopoguerra caratterizzato dalla ricostruzione in Europa e dalla contrapposizione dei blocchi scaturiti dalla guerra fredda, mentre si avviava il processo di decolonizzazione e i nuovi stati rivendicavano una disciplina che si occupasse dei loro specifici problemi. Nel 1944 a Bretton Woods nascono la International Bank for Reconstruction and Development, altrimenti nota come World Bank (Banca mondiale) e il Fondo monetario internazionale (I.M.F.). Come ebbe a dire H. Truman nel suo discorso di reinsediamento alla presidenza degli Stati Uniti (20 gennaio 1949), si trattava d’indicare la via liberal-capitalista della prosperità agli stati di recente indipendenza caratterizzati da sottosviluppo, ovvero da bassi livelli di crescita economica, altrimenti attratti dal modello concorrente socialista. La visione ottimistica del cosiddetto paradigma della modernizzazione era fiduciosa nell’uniformità del processo di cambiamento economico, sociale e politico già avvenuto nelle società del primo mondo. Quest’ultimo era interpretato in termini di passaggio da una situazione di arretratezza a una caratterizzata da industrializzazione, urbanizzazione, e alti livelli di benessere materiale. Su queste basi, l’Occidente pretendeva di applicare le elaborazioni di tale autorappresentazione al terzo mondo, considerato di conseguenza un blocco unico e indifferenziato. Tutte le più importanti teorie economiche del periodo partivano dal presupposto comune che lo sviluppo consistesse in un processo evoluzionistico mosso da forze endogene lungo stadi temporali validi per tutti i paesi:
i modelli di crescita costante di Harrod e Domar;
la teoria del big push di Rosenstein-Rodan, che ipotizzava massicci investimenti gestiti dalla mano pubblica (ad esempio, il piano Marshall in Europa);
la teoria degli stadi di sviluppo di Rostow (definita “manifesto non comunista” dal suo stesso autore) che prevedeva la crescita economica attraverso il susseguirsi di passaggi dall’agricoltura all’industria, ai servizi fino allo stadio del consumismo di massa.

Negli anni ’60, contraddistinti da stagnazione economica e lotte per l’indipendenza, risultò chiaro che la prospettiva di un imminente decollo del terzo mondo si allontanava sempre più e che il modello occidentale di sviluppo non era applicabile automaticamente ovunque. Il pessimismo dello sviluppo venne raccolto dai teorici, in particolare economisti e sociologi della Commissione economica per l’America Latina delle Nazioni unite (CEPAL), sostenitori dell’approccio della dipendenza. La tesi centrale della dipendenza è che sviluppo e sottosviluppo sono fenomeni connessi fra loro, aspetti del medesimo processo storico della formazione del sistema capitalistico mondiale. Lo sviluppo è alimentato dal sottosviluppo, nei seguenti termini:
la legge del vantaggio comparato nel sistema economico internazionale penalizza i paesi del terzo mondo specializzati nella produzione di materie prime e dunque maggiormente vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi
la legge dello scambio ineguale penalizza il contraente del sud perché più alti livelli di tecnologia e maggior costo forza lavoro aumentano i prezzi delle merci che giungono dal nord.

Ad insistere in particolare sull’interdipendenza dei processi di sviluppo è la componente neomarxista dei dependentistas. Paul Baran, André Gunder Frank, Samir Amin, Immanuel Wallerstein ritengono che sia proprio l’ingerenza dell’Occidente a impedire al terzo mondo di giungere all’industrializzazione e allo sviluppo, e danno grande rilievo alla rivoluzione contadina (secondo l’interpretazione maoista dell’originale teoria marxista) nell’evoluzione dal tradizionale al moderno. Da parte sua la componente neostrutturalista (Raoul Prebisch, H.W. Singer) nega l’ipotesi dell’evoluzione proposta dalla modernizzazione sulla base di problemi di tipo strutturale che rimandano a un intervento statalista per la loro risoluzione. La nuova crisi dello sviluppo mondiale a partire dalla metà degli anni ’70, susseguente al crollo del prezzo delle materie prime e all’indebitamento dei paesi del sud, rese inapplicabile anche l’approccio dipendentista. Si parlò allora dell’opportunità dello sganciamento o de-linking delle “periferie” dal “centro” (Amin). Il correttivo alla squilibrata situazione economica mondiale poteva venire solo da un’inversione di rotta di carattere politico: era necessario che il sud si sviluppasse secondo modalità originali di capitalismo di stato, il che avrebbe reso gli stati finalmente autonomi nella gestione del proprio surplus a favore degli interessi generali e non delle locali borghesie compratore di beni di lusso del nord. Parallelamente, la Risoluzione 3101 del maggio ’74 dell’ONU chiedeva la costituzione di un Nuovo ordine economico internazionale (NOEI): l’integrazione nel mercato mondiale non veniva rigettata pregiudizialmente, ma si auspicava la costruzione di forme non gerarchiche d’interdipendenza nord-sud. Il Rapporto Brandt del 1980, che prendeva origine dal NOEI stesso, intendeva conciliare il successo del modello delle società occidentali con il ruolo dei paesi del terzo mondo nel mercato mondiale: raccomandava un massiccio trasferimento di risorse dal nord al sud, nella convinzione keynesiana che ciò avrebbe stimolato le economie povere verso il take-off industriale. Frattanto, la seconda decade dello sviluppo (1970-1980) vide la consacrazione a livello teorico-progettuale dello “sviluppo diverso”, così definito dal Documento programmatico dell’Assemblea ONU del 1975 (What now. Another Development) redatto dalla Fondazione Dag Hammarrskjold di Uppsala. Esso postula, sistematizzando molte delle critiche che in quegli anni erano maturate nell’ambiente degli addetti ai lavori, che lo sviluppo debba possedere i seguenti caratteri:
deve tendere alla soddisfazione dei bisogni primari (da J. Galtung), deve cioè garantire a ciascun individuo di tutti i paesi nutrizione (vedi alimentazione), casa (vedi abitazione) vestiario, salute, ma anche libertà, identità, giustizia;
deve essere endogeno e self reliant, basato cioè sull’autosufficienza, sul contare sulle proprie forze;
deve essere in armonia con la natura, cioè sostenibile (dall’ecosviluppo di I. Sachs);
dev’essere partecipato, secondo la teoria del “terzo sistema” formulato dall’IFDA (International Foundation for Development Initiatives), che proponeva la riappropriazione dello sviluppo da parte del Cittadino (nella forma di società civile e di organizzazioni non governative), contrapposto al Principe (stato) e al Mercante (economia).
Corollario della partecipazione divenne il principio di responsabilità, o accountability, secondo il quale chi esercita un potere deve essere considerato responsabile delle conseguenze del suo esercizio.

Il decennio successivo è stato definito “il decennio perso dello sviluppo”. L’aggravarsi della crisi debitoria spostò l’attenzione degli economisti, delle organizzazioni internazionali e dei governi sul problema della stabilizzazione. Il clima culturale dominato dalla destra al potere in Gran Bretagna e Stati Uniti fece riferimento a modelli economici neoclassici e macroeconomia monetarista. Sotto accusa erano le strategie stataliste dell’approccio keynesiano-strutturalista: per contro si stabiliva che solo il mercato avrebbe permesso, sul lungo termine, la crescita economica e la lotta alla povertà, nonostante l’austerity nel breve periodo. Le ricette, formalizzate nei programmi di aggiustamento strutturale (PAS) del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, ai quali era condizionata la concessione di prestiti ai paesi indebitati, furono diverse:
la soppressione delle misure protezionistiche,
la liberalizzazione del commercio,
la svalutazione del tasso di cambio,
la contrazione della spesa pubblica,
la privatizzazione.

Dopo vent’anni, la valutazione complessiva dei PAS non può non rilevare, nella maggioranza degli stati che hanno applicato queste misure, l’aggravamento della povertà, dovuto allo smantellamento della maggior parte delle realizzazioni precedenti.

Nel 1990 le Nazioni Unite hanno ufficializzato un nuovo approccio ai problemi dello sviluppo che finalmente abbandona la visione riduzionista economicista dell’aumento del reddito pro-capite, e ratifica la necessità della misurazione di variabili quali istruzione sanità, diritti civili e politici. Riecheggiando in particolare la teoria gli entitlements dell’economista indiano A. Sen – secondo la quale lo sviluppo desiderabile è quello che consente a ciascuno l’effettiva acquisizione delle risorse determinata, oltre che dal reddito, dall’esistenza di meccanismi istituzionali e politici idonei – il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (vedi UNDP) pubblica il primo Rapporto sullo sviluppo umano. L’Indice di sviluppo umano (ISU) istituzionalizza un nuovo modo di misurare lo sviluppo, inteso come «processo di ampliamento delle possibilità di scelta della gente»: aggregati in un indice ponderato troviamo i seguenti indicatori:
speranza di vita alla nascita,
tasso di alfabetizzazione,
valore reale del reddito pro-capite espresso in potere d’acquisto rispetto al dollaro.

Successivi rapporti hanno approfondito la ricerca tecnica sull’ISU: il Rapporto n. 3 (1992) introduce l’indice di libertà politica, mentre l’indice di sviluppo di genere è stato introdotto dal Rapporto n. 6 (1995). La geografia economica del pianeta ne è risultata stravolta: non esiste più alcun legame automatico tra reddito e benessere.
Il panorama attuale col quale le nuove teorie dello sviluppo devono confrontarsi è estremamente complesso. Da un lato i grandi temi dello sviluppo umano come l’ambiente, lo sviluppo sociale, il genere sono ormai questioni assimilate da tutte le agenzie di sviluppo, Banca Mondiale compresa, come dimostrano i titoli dei rapporti e le Conferenze di Rio de Janeiro del 1992, o di Copenhagen e di Pechino nel 1995. Dall’altro la globalizzazione implica una interdipendenza e sempre più asimmetrica: l’istituzionalizzazione delle relazioni economiche internazionali, come dimostra la nascita dell’Organizzazione mondiale per il commercio (OMC) e la sua estensione a disciplinare tutti i tipi di transazioni, comporta una rinnovata marginalizzazione dei paesi in via di sviluppo, alimenta i processi migratori provenienti da questi ultimi e rappresenta una sfida crescente alla sovranità dello stato-nazione.