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Pace

Pace e nonviolenza non sono sinonimi. La nonviolenza è un insieme di principi e di comportamenti che non si limitavano al rifiuto di infliggere un danno fisico o morale, ma propongono un modo non distruttivo di affrontare e risolvere i conflitti, distanziandosi così dalle forme più tradizionali di pacifismo. La pace invece è tradizionalmente intesa secondo quattro accezioni:

* come «assenza di guerra», che a sua volta può essere:
negoziata attraverso strumenti diplomatici;
non negoziata, nelle due forme di assenza di violenza diretta e di violenza strutturale sulla collettività.

* come pausa tra due guerre, laddove la guerra è intesa come la condizione naturale dell’umanità;

* come l’ultimo stadio di un processo che misura il rapporto di forze fra i contendenti e che, dalla guerra, si snoda attraverso tregua e armistizio, per giungere alla pace negoziata. Quest’ultima, in quanto tale, potrebbe essere addirittura uno degli obiettivi della guerra stessa, innescata al fine di definire in modo inequivocabile il rapporto di forze tra le parti in conflitto. In tal senso vanno anche letti i cosiddetti interventi autoritativi di pace, proposti in tempi recenti con varie missioni compiute nel nome di Organizzazioni internazionali: si tratta di casi in cui alleanze fra Stati hanno sfidato il monopolio della forza esercitato da un altro Stato, di fatto, violandone la sovranità;

* come condizione nonviolenta estesa alla collettività (pace sociale), necessaria alla realizzazione della giustizia.

Circa la definizione di pace, la prima considerazione da fare è che non può essere definita se non in relazione alla definizione di guerra. A differenza di tutti quei casi in cui di 2 termini opposti, l’uno viene definito per mezzo dell’altro e vicevers, quando parliamo di pace, la dobbiamo definire ricorrendo al termine "guerra", ma non accade mai il contrario. In altre parole, mentre la definizione di guerra è ricca di connotati caratterizzanti, la pace viene definita "negativamente" come assenza di guerra, più brevemente come non-guerra. Solitamente, quando si è di fronte ad una situazione come questa, il termine più "forte" è quello che indica lo stato di fatto essenzialmente più rilevante. E’ sufficiente considerare anche solo per per un momento la storia della filosofia politica: esiste una grande filosofia della guerra, non ne esiste una vera e propria della pace. Infatti, soprattutto nell’età moderna, si potrebbe persino sostenere che gran parte della filosofia politica è una continua meditazione sul problema della guerra, sul suo significato, poiché nessun fenomeno più della guerra ha spinto il filosofo alla riflessione circa il senso della storia. In questa sua accezione (non-guerra), la pace può essere interna oppure esterna, a seconda che inerisca l’assenza di un conflitto interno ( es. fra comportamenti di uno stesso individuo), oppure esterno (es. fra individui o gruppi diversi). Il tema della pace interna appartiene alla morale, la sua trattazione è compito dei moralisti; quello della pace esterna appartiene al diritto, la sua trattazione è compito dei giuristi. Molto spesso, soprattutto nelle filosofie spiritualistiche, si individua un nesso fra i due tipi di pace, essendo considerata la pace interna o interiore come "vera" pace, da cui dipende quella esterna. La principale definizione di pace, così com’è intesa nel linguaggio letterario, filosofico e giuridico, ma anche nel linguaggio comune, è quindi l’assenza di guerra e assume una sfumatura negativa.

Nel linguaggio tecnico, specialmente tecnico- giuridico, la pace assume invece un tono positivo, richiamando un concetto non generico, ma specifico, con il quale s’intende non tanto l’assenza di un conflitto, quanto piuttosto la sua conclusione, la soluzione, giuridicamente regolata dal diritto internazionale con un accordo. Di conseguenza, mentre guerra in senso positivo e pace in senso negativo occupano tutta l’estensione dei rapporti possibili tra stati, guerra in senso positivo e pace in senso positivo lasciano uno spazio libero, il cosiddetto armistizio (o tregua), che consiste in un periodo che non è più guerra, ma non ancora pace. Bisogna notare, che il concetto positivo di pace, essendo un concetto tecnico del diritto internazionale, non ha nulla a che vedere con la definizione non più lessicale ma persuasiva, tipica del pensiero teologico o filosofico, in base alla quale il termine "pace" è considerata necessariamente portatore di valori positivi poiché connessa alla giustizia. Questa definizione non dice ciò che la pace è, ma ciò che essa dovrebbe essere per essere considerata un bene.

Il problema discusso da molti circa la trattazione della pace come valore, apre la strada a considerazioni che possono essere raggruppate in 2 tendenze principali:
* pace vista come bene assoluto
* pace vista come bene relativo, misurato sulla base del conseguimento di fini

Per quanto riguarda la prima tendenza, esemplare è il caso della filosofia politica di Hobbes, che parte dallo stato di natura, considerato come stato di guerra universale e perpetua. In quanto tale, lo stato di natura è una condizione da cui l’umanità deve necessariamente uscire. Contrapposto alo stato di natura come stato di guerra, lo stato di pace è la società civile. Questo modello chiamato "hobbesiano" è significativo, perché la contrapposizione tra guerra e pace, visti rispettivamente come male e bene assoluti, è molto attuale. L’equilibrio del terrore, applicato nell’ambito di trattati internazionali anarchici è il ritorno allo stato di natura, alla guerra. Nel rifiuto di considerare la guerra e la pace in questo modo, si possono distinguere, nel corso del pensiero politico degli ultimi secoli, 2 tendenze:
* la tendenza secondo cui non tutte le guerre sono ingiuste , e non tutte le paci sono giuste; di conseguenza la pace non è sempre un valore assoluto e la guerra un disvalore;
* la tendenza secondo cui guerra e pace sono concetti relativi e basati sul principio che il valore del mezzo dipende dal valore del fine .

Per quanto riguarda la prima tendenza, ci si può riferire alle teorie sulla "guerra giusta". In breve una guerra viene giustificata solitamente quando è di difesa o quando rappresenta il mezzo per l’instaurazione di un diritto nuovo, dal momento che quello vecchio è diventato ingiusto. Il principio in base al quale si può distinguere una pace giusta da una ingiusta è quello stesso che vale per la legittima difesa, alla quale si richiede che sia proporzionale all’offesa. Ingiusta sarà dunque la pace che impone ai vinti un castigo, una riparazione di danni, una perdita di territori dettati dallo spirito di vendetta e non dal proposito di ristabilire l’ordine violato. Inutile dire che in concreto è difficile stabilire quando una guerra sia giusta o una pace sia ingiusta, soprattutto perché manca un giudice imparziale al di sopra delle parti nell’ordine internazionale. La seconda tendenza considera guerra e pace come valori strumentali, con la conseguenza che se il valore del mezzo dipende da quello del fine, allora valgono i due principi:
* il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo;
* il fine cattivo non giustifica anche il mezzo buono.

La concezione strumentale della guerra si è inserita nel corso del tempo in quelle filosofie della storia che hanno considerato la guerra spesa come un male necessario. Il giornalista Massimo Fini e alcuni studiosi ritengono che la guerra sia funzionale al progresso in quanto:
* sviluppa energie, induce gli uomini all’esercizio di virtù (coraggio eroico) – progresso morale;
* rende possibile l’unione di genti diverse in comunità sempre più vaste – progresso sociale;
* spinge e stimola l’intelligenza creativa dell’uomo, che risponde con maggior vigore e con risultati sorprendentemente migliori ai contrasti contro la natura e contro gli altri uomini – progresso tecnico.

L’altra faccia della medaglia è la visione della pace come bene insufficiente; ciò significa che la pace da sola può non essere in grado di assicurare una vita sociale perfetta, in cui gli uomini possano essere felici. In questi casi la pace è considerata come una condizione, che serve a realizzare altri valori, di solito considerati superiori, come la giustizia, la libertà, il benessere. Il bene che la pace tutela è il bene della vita. Nel momento in cui la vita non è considerata come il bene massimo, ma è subordinata, ad es. alla libertà, la pace non è più un valore supremo, e, in certi casi, può diventare anche un disvalore. Non sono poche la considerazioni che prendono in considerazione la diverse tipologie di pace, anche se non raggiungono neanche lontanamente quelle esistenti per il fenomeno della guerra. A titolo orientativo, possiamo ricordare quella di Rimond Aron, che distingue 3 tipi di pace:
* pace di potenza
* pace di impotenza
* pace di soddisfazione

All’interno della pace di potenza si possono riconoscere altri 3 tipi di pace: se i gruppi politici sono in rapporto di eguaglianza – pace di equilibrio; se sono in rapporto di diseguaglianza fondata sulla preponderanza di uno sugli altri – pace di egemonia; se sono in rapporto di diseguaglianza fondata su un vero e proprio dominio , imposto con la forza – pace di impegno. La pace di impotenza è fondata su quello stato che dopo l’avvento della guerra atomica si chiama "equilibrio del terrore", e consiste nel fatto che tutte la potenze interessate alla pace sono in grado di infliggere alle altre colpi mortali. La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o di altro genere nei confronti degli altri, e i rapporti sono fondati sulla reciproca fiducia.

Peace research

La ricerca scientifica sulla pace, conosciuta come "Peace research" è l’attività scientifica multidisciplinare volta a mettere in luce le condizioni di una pace stabile e duratura nel mondo, e indaga sulla misura e sui modi in cui queste condizioni possono essere realizzate. Alla "Peace research" contribuiscono le più svariate discipline, come la scienza politica, l’economia, la sociologia, la psicologia, la storia, la filosofia, il diritto internazionale, la statistica, la matematica, la demografia. Le origini di questo movimento risalgono agli anni precedenti la II guerra mondiale, anni in cui si manifestò un più forte e partecipato interesse nei confronti dello studio del problema guerra-pace. Un importante stimolo all’ulteriore sviluppo avvenne subito dopo la guerra dall’UNESCO, quando vari studiosi si riunirono per discutere circa il reale significato della pace. Vennero forniti molti altri impulsi allo sviluppo della P.R., come ad esempio un concorso bandito dall’Istituto di ricerca sociale di Oslo (1945), la fondazione del "Centrer for research on conflict resolution" presso l’Università di Michigan. Dal ’57 in poi si moltiplicarono in tutto il mondo le iniziative per creare centri di ricerca, come per esempio il "Canadian Peace Research Istitute" (1961), la nascita a Stoccolma del SIPRI (Stocckolm international peace research institute –1966), la formazione nel ’64 di un’associazione internazionale (IPRA) da cui dipendono molte associazioni minori. Come conseguenza dal ’57 in poi ci fu una grande diffusione e pubblicazione di giornali, in cui erano presenti le ricerche effettuate e i risultati ottenuti. Un problema particolarmente importante e che si pone in modo drammatico concerne la cosiddetta traduzione della teoria in proposte pratiche, che vengano prese in considerazione effettivamente per la realizzazione di una pace stabile e duratura; ovviamente ci si è resi conto che il cammino verso questo traguardo è ancora lungo, ma sicuramente vale la pena di impegnarsi per raggiungerlo.