Consumo Critico Ecologia Economia Sostenibile Mondialità Nonviolenza Sviluppo Umano
Turismo Responsabile

Azione Nonviolenta

La nonviolenza come disciplina di studio e come metodologia pratica di risoluzione dei conflitti è "ideata" da Gandhi nel corso della sua lunga vita e viene applicata direttamente e in forma sistematica nel conflitto che oppone l'India all'Inghilterra durante la I° e la II° guerra mondiale. Alla fine di questo conflitto la nonviolenza risulterà vincente e porterà l'India a conquistare l'indipendenza dal dominio inglese. Ovviamente la nonviolenza ha radici più antiche, ma il primo che ne fece un principio e una teoria di vita, oltre che una prassi di azione, fu appunto Gandhi. Per Gandhi il rapporto con la nonviolenza è legato all'individuo e allo sviluppo della sua coscienza.

Egli propone due concetti basilari:
AHIMSA, non fare del male agli altri
SATYAGRAHA, aderenza alla verità

Il non fare del male agli altri e l'aderenza alla verità impongono un forte lavoro basato sulla persona e sulla sua capacità di crescere su queste cose e di resistere di fronte alle spinte incoerenti del contesto in cui si vive. Egli però non impone una regola, ma indica un percorso individuale per giungere alla nonviolenza, percorso che può e deve essere condiviso con altri. Forse il "vero obiettivo" non è neanche quello di essere nonviolenti, ma piuttosto amici della nonviolenza e anche rispetto alla nonviolenza lo scopo si concentra nel ridurre ai minimi termini possibili la presenza della violenza nell'agire umano e nelle attività umane. La violenza va intesa nel suo significato più ampio, per cui non è solo quella della guerra o delle armi, ma ogni atto che comporta distruzione, oppressione, costrizione, verso cose, animali, persone. C'è quindi spazio per tutti per migliorare e migliorarsi nell'azione nonviolenta.

Elementi della nonviolenza

Gli elementi della nonviolenza sono sostanzialmente rappresentati dai suoi principi. L'elemento cardine è però costituito dalla relazione cioè da quell'insieme di collegamenti, connessioni, stati emotivi, etc. che si sviluppano fra due o più soggetti, sia quando questi sono persone singole, sia quando si ha a che fare con realtà complesse come società o nazioni. Possibilità di rendere la relazione "ponte" fra le due parti in conflitto, "ponte" che non giudica e non stabilisce chi ha ragione o torto, ma che facilita la comunicazione e la comprensione fra le parti. Il terzo elemento è dato dall'azione, cioè dalla capacità di attuare in pratica i principi e la relazione.

La nonviolenza può essere intesa come
* uno stile di vita: apertura all'esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti; opposizione all'oppressione, alla distruzione. Resistenza attiva. Un modo di essere e di vivere i rapporti con gli altri che prima di acquisire un valore come azione sociale (esterna a noi), deve penetrare nelle nostre coscienze ed essere parte di noi.
* una scelta pragmatica per risolvere i conflitti: si può vedere nella nonviolenza un metodo efficace che dà più risultati, o meno danni, dell'azione violenta. In questo caso il "minimo" richiesto è il rispetto dei due capisaldi della nonviolenza (non usare violenza fisica e non offendere la dignità dell'altro) per tutta la durata del conflitto. Nel primo caso il tipo di approccio è più legato alla filosofia gandhiana, nel secondo caso si può identificare con gli apporti degli studiosi occidentali. Nell'approccio occidentale invece il punto centrale riguarda l'analisi per ottenere e mantenere il potere. Queste due dimensioni sono integrabili anche se noi ci soffermeremo soprattutto sulla seconda.

La nonviolenza, come disse Gandhi, è vecchia come le montagne. Questa parola tradurre il termine “ahimsa”, una parola in Sanscrito che significa letteralmente “non nuocere”. La radice del termine è “hins”, cioé la “forma desiderante” di “han” che significa ammazzare, uccidere o danneggiare. Perciò “hins” implica il desiderio di uccidere, ferire o distruggere. La “a” iniziale è una negativa, perciò “ahimsa” ha il più vasto significato di non avere alcun desiderio, intenzione o volontà di uccidere, ferire e distruggere.

Il modo dell’azione nonviolenta si può descrivere come una “terza via”, un’alternativa fra il sottomettersi alle ingiustizie e la reazione violenta contro di esse. Molta gente non riesce a vedere che le due alternative più comuni: o accettano passivamente la situazione ingiusta, o si preparano ad usare la violenza per difendere i loro diritti. Sfortunatamente, chi usa questo secondo modo, spesso non è in grado di controllarlo o di fare in modo che non opprima altri. La giustizia raramente si ottiene basandosi su chi dei contendenti ha l’esercito più forte e capace di uccidere e distruggere gli oppositori. Dall’altro lato, chi si sottomette a ciò che è forzato ad accettare viene considerato debole e codardo nel mentre soffre l’oppressione della violenza. La terza via dà modo anche a coloro che sono pochi o hanno scarse risorse materiali di ergersi per i loro diritti, con forza morale e dignità. Non c’è bisogno di essere grandi e grossi o forzuti per usare l’azione nonviolenta. I più anziani e i giovanissimi, le donne, persino i portatori di handicap sono efficaci nell’uso dell’azione nonviolenta quanto i giovani uomini fisicamente prestanti. Il potere della nonviolenza viene dalle qualità spirituali dell’amore, della comprensione, dell’abilità comunicativa, del coraggio, e della perseveranza. La sottomissione, l’accettazione, la passività non alleviano l’oppressione e l’ingiustizia, la reazione violenta incoraggia il crescere della violenza e della repressione. Il modo nonviolento è un’apertura, un ascolto, un considerare l’intero mondo la propria famiglia: considerare i diversi punti di vista significa scoprire che le differenze non sono disarmonie, se ci trattiamo l’un l’altro con amore e rispetto. Noi agiamo in questo modo verso i nostri amici ed alleati, ma anche verso i nostri oppositori o i nostri critici: perché sono esseri umani come noi e abbiamo la necessità di capirli ancor più di quelli che sono d’accordo con noi. Apertura significa anche trasparenza. Non tentiamo di tener nulla nascosto, ne’ di trarre vantaggio dall’ignoranza altrui. Siamo disponibili alla comunicazione, alla relazione, alla cooperazione; esaminiamo tutti i punti di vista, ma ci atteniamo nella scelta alla nostra visione: non accettiamo tutti i concetti o tutte le attitudini, non cooperiamo con ciò che provoca dolore e ingiustizia, ma siamo sempre disponibili a discutere.

Il satyagraha

Gandhi usò il termine “satyagraha” per descrivere le modalità dell’attivismo nonviolento. La parola “satya” significa “verità” e deriva da “sat” che ha lo stesso significato nel senso di “essere”, “realtà” o “esistenza”. La parola “graha” significa aggrapparsi fermamente a qualcosa. Perciò “satyagraha” vuol dire: attenersi fermamente alla verità. Al di là delle convinzioni religiose o dei credo filosofici, ideologici o spirituali che una persona può avere o non avere, questo modo implica il dedicarsi alla verità e all’onestà nelle relazioni umane. Noi esseri umani abbiamo il grande dono del linguaggio attraverso il quale comunichiamo simbolicamente, oltre a comunicare direttamente con le nostre azioni. Poiché il linguaggio è un’astrazione simbolica riferita ad oggetti, relazioni e concetti, le parole possono essere più o meno accurate nel tentativo di descrivere la realtà. Il linguaggio può essere erroneo e le persone possono mentire. La menzogna è una sottile forma di violenza, giacché mostra scarso rispetto per gli altri o paura della realtà. Separarci dalla verità significa separarci dalla realtà. Per essere onesti con noi stessi dobbiamo esserlo con gli altri. E’ veramente gentilezza non dire ad altre persone quel che si pensa e permettere al risentimento e al rancore di crescere nel silenzio, finché esploderanno in allontanamento o litigio? Il metodo nonviolento ha il coraggio di confrontarsi con la realtà, con ciò che accade, di modo da poter lavorare con tutti gli attori sulla scena per risolvere il conflitto. I nostri sentimenti, le nostre sensazioni, sono in grado di dirci molto su come vanno le cose e comunicandoli saremo maggiormente in grado di maneggiare le diverse situazioni nel modo migliore: questo non significa che rovesceremo sugli altri tutti i nostri problemi personali senza alcun discernimento. La comunicazione migliore, quella a cui tendiamo, è chiara, aperta ed onesta. Anche quando, come gruppo, comunichiamo verso l’esterno, è necessario che le nostre parole siano accurate e chiare: la credibilità del nostro movimento, e la buona riuscita dell’azione nonviolenta, dipendono dalla fiducia che le persone a cui ci rivolgiamo possono avere in noi. La fiducia che non stiamo mentendo loro, ad esempio. Questa è una differenza sostanziale rispetto al metodo “militarizzato” che la comunicazione usa di solito basato sulla segretezza, sulla menzogna, sull’adesione acritica all’ordine dall’alto o al parere del cosiddetto esperto. Noi siamo anche molto attente e attenti al non implicare nelle nostre comunicazioni un senso di superiorità, ovvero che ci sentiamo “migliori” solo perché abbiamo delle critiche da fare a situazioni ed azioni. Tutti facciamo errori. Suggeriamo però pacificamente a chi riteniamo in errore di considerare la possibilità di un cambiamento, presentando delle alternative chiare.

Si dice che il metodo dell’azione nonviolenta sia debole e passivo, o che rifiuti il conflitto. Al contrario, l’azione nonviolenta nomina ed apre e gestisce i conflitti. Certamente, non è un metodo per i codardi. Prendere parte ad un’azione diretta nonviolenta richiede coraggio, un coraggio che non ha bisogno ne’ desiderio di armi e scudi. Un coraggio che cammina con dignità e senza timore nel conflitto, che sfida l’ingiustizia e lavora con forza per il cambiamento. Un coraggio disposto ad assumere su di sé dolore o situazioni spiacevoli, ma non disposto ad infliggerli ad altri. Amore e fiducia, non odio e paura, sono ciò che definisce il coraggio. La parola “coraggio” deriva da “cuore”: noi abbiamo cuore sufficiente da confrontarci con i nostri oppositori, credendo fermamente in un processo umano e nonviolento di riconcilazione. E’ la compassione a darci cuore. La compassione non è pietà. E’ amore empatico, è “sentire insieme”, nella gioia e nel dolore; un sentimento non solo capace di sintonizzarsi con i sentimenti altrui, ma anche saggio e coraggioso abbastanza da tradursi in azione. La compassione nasce da un sentimento di unità che ha l’effetto di espandere i nostri cuori: qualsiasi sia la campagna, lo scopo, a cui dedicate le vostre energie, la fame nel mondo, la tutela dell’ambiente, il cercare un’economia di giustizia, la scintilla del vostro agire si è accesa a partire da questo sentimento. Voi vi siete dette che era vostra responsabilità fare qualcosa per arrestare il dolore altrui. E’ stata la compassione, ovvero il sentirvi parte del sentire altrui, a suggerirvi che si potrebbe vivere in armonia maggiore con la terra e fra noi esseri umani.

Un’altra qualità rivoluzionaria dell’azione nonviolenta è la pazienza. Una pazienza persistente, la capacità di non abbandonare la scena in cui abbiamo scelto di agire, e di procedere in maniera calma ed intelligente. Quando siamo coinvolte nell’azione, spesso le nostre emozioni sono in primo piano: dobbiamo fare molta attenzione ad agire in maniera avvertita, dopo aver riflettuto su quanto vogliamo fare e sulle conseguenze delle nostre azioni. La pazienza persistente ci dà il tempo di pensare, di progettare, di proiettare l’azione nel futuro valutandone le conseguenze. E’ meglio aspettare e perdere magari una piccola opportunità, piuttosto che muoversi in modo sconnesso e impreparato, rendendo l’azione inefficace. Nuove opportunità ci si presenteranno comunque. Se abbiamo il tempo di riflettere sulla situazione e sul modo migliore di maneggiarla, saremo pronti poi ad agire nel modo migliore. A differenza dei metodi militarizzati che corrono nell’azione nel modo più veloce e spietato possibile, l’azione nonviolenta è lenta in modo deliberato, nel senso che dà ampi e frequenti avvisi agli oppositori su cosa sta accadendo, di modo che essi possano decidere in modo avvertito come confrontarsi con noi. Non vogliamo che i nostri oppositori reagiscano in maniera istintiva, in preda al panico o alla rabbia. Vogliamo che conoscano noi e i nostri metodi, in modo da poterci rispondere nel modo più calmo e intelligente possibile. Il metodo militarizzato è veloce e distruttivo come il fuoco, ma l’azione nonviolenta fluisce e nutre come l’acqua. Qualcuno è sempre pronto a dire: “il fuoco si combatte con il fuoco”, ma se ci riflettete sopra vedrete che la metafora è priva di senso: combattere il fuoco con l’acqua è molto più efficace. L’acqua sceglie il sentiero più profondo, ma il suo scorrere persistente e paziente è in grado di consumare le rocce più dure. Perciò più saremo persistenti, più progressi otterremo nella comunicazione, nell’educazione e nel risveglio di altre persone rispetto alle circostanze che vogliamo veder cambiate. La persistenza significa anche che noi siamo flessibili nelle tecniche che usiamo: se un metodo non funziona, lo abbandoniamo e ne proviamo un altro. E dobbiamo persistere non solo nei nostri sforzi per il cambiamento sociale, ma nel portarci amore l’un l’altro, perché questa è la prima risorsa che ci nutre, ci sostiene e ci consente di continuare. Lo scopo finale di ogni azione nonviolenta non è la cancellazione degli oppositori, ma il trovare un modo armonioso, giusto e pacifico di vivere insieme. Ecco perché quando questo scopo finale viene raggiunto non ci sono perdenti: coloro che sono stati convinti dalla nostra azione saranno grati del mutamento raggiunto quanto quelli che hanno progettato l’azione stessa.

Partono da alcune indicazioni di Gandhi, per attuare un'azione nonviolenta si possono indicare i seguenti punti.
* La lotta nonviolenta diventa legittima solo dopo che tutti gli altri mezzi leciti sono stati messi alla prova.
* Non bisogna allargare l'obiettivo della lotta e non iniziare la lotta con i mezzi più radicali (c'è una scala graduale che prevede di partire col mezzo a "minor" impatto per la controparte per poi crescere in determinazione se questo non sortisce effetto).
* Bisogna sempre mettersi "nei panni dell'altro" per capire le motivazioni che portano la controparte al conflitto. Non tanto con lo scopo di meglio saperlo contrastare, ma con l'obiettivo di riuscire a trovare punti di intesa con la controparte.
* Bisogna sempre ricercare un compromesso, in modo che entrambe le parti trovino soddisfazione dalla risoluzione del conflitto. La modalità da ricercare non è quella del IO VINCO-TU PERDI, ma IO VINCO-TU VINCI.
* Non si può però mai fare compromessi sul "cuore" del conflitto o su principi che ne stanno alla base. Questo punto quindi richiede una grande capacità di analisi e di scelta politica rispetto alle cose che sono "cuore" o "principi".
* La nonviolenza deve essere intesa come rispetto della dignità della controparte e non solo della sua vita.
* Anche le cose materiali vanno rispettate. In ogni caso se si decide di ricorrere al boicottaggio e poi al sabotaggio, l'obiettivo dell'azione deve essere mirato e non deve comportare pericolo per nessuno (se non per gli affari economici o politici della controparte).
* Bisogna sempre evitare la clandestinità e i segreti. L'azione nonviolenta deve essere pubblica, senza segreti o doppi fini. La controparte deve conoscere bene cosa vogliamo.
* Bisogna essere creativi e fantasiosi. Mai lasciare la mossa alla controparte, agire per primi in modo da costringere l'altro a "rincorrerci" sul nostro terreno. Più l'azione sarà innovativa, condotta in forme fantasiose e aggreganti, più la controparte sarà in difficoltà.
* Bisogna sempre predisporre un "programma costruttivo", cioè una serie di cose o di realizzazioni che si vogliono fare in sostituzione delle cose che si contesta. Da parte di chi agisce una modalità nonviolenta vi è sempre l'onere di presentare una proposta credibile e realizzabile delle cose che si vogliono fare.
* E' necessario ricordarsi e sapere che la nonviolenza, vissuta solo come una tecnica d'azione, non garantisce sulla bontà del fine. Si possono agire le metodologie nonviolente anche per scopi non giusti o non legittimi.

 

Cosa può fare la nonviolenza

La nonviolenza può diventare quindi uno strumento per:
* ottenere nuove cose: leggi più "giuste", libertà, più diritti civili ed umani, impedire azioni ritenute riprovevoli, spingere governi, aziende, società o gruppi verso certe scelte;
* per difendere cose esistenti: leggi ritenute valide, istituzioni democratiche, conquiste civili, tradizioni e cultura, territori, persone, realtà associative ecc. I suoi strumenti di lotta sono i mezzi di lotta nonviolenti quali la noncollaborazione, la disobbedienza civile, il boicottaggio, il sabotaggio, il programma costruttivo ed alternativo e tante piccole azioni, tecniche e modalità.

Molti esempi storici confermano la validità della resistenza attiva nonviolenta (non-collaborazione con chi governa, disobbedienza civile, boicottaggio sociale, economico, politico, controinformazioni; obiezione fiscale, lavorativa, etc.). Segue un breve elenco cronologico di lotte, azioni, movimenti che sono stati basati, talvolta anche inconsapevolmente, su metodologie nonviolente:


lotta di liberazione dell'India da parte del movimento guidato da Gandhi;
parte della resistenza danese e norvegese all'invasione nazista;
molti esempi della resistenza italiana alla caduta del fascismo nel 1943 (ricerche fatte su Roma, Napoli, Bergamo, Forlì, ecc.);
la lotta per i diritti civili dei neri guidata da Martin L. King;
le lotte per i diritti civili e sindacali portate avanti con César Chavez;
la resistenza all'invasione della Cecosclovacchia da parte delle forze dell'ex Patto di Varsavia nel 1968;
lotta dei movimenti pacifisti eurpoei contro l'installazione da parte del governo USA dei missili atomici in risposta al riarmo dell'URSS;
inizio della Campagna di disobbedienza civile di massa contro la parte di tasse destinata al bilancio della Difesa italiano (obiezione di coscienza alle spese militari). E' una forma di lotta diffusa anche in altri Paesi;
la caduta del dittatore Marcos nelle Filippine, 1986;
lotta contro il nucleare e le centrali nucleari in Italia culminata nel 1987 col referendum vinto dagli antinuclearisti (1986 gravissimo incidente di Cernobyl);
boicottaggio organizzato su scala mondiale delle banche coinvolte con il regime razzista del Sud Africa. Campagna poi conclusasi per i profondi cambiamenti intervenuti in quel Paese, tali da portare Nelson Mandela, avvocato di colore in prigione da 25 anni, alla guida della Nazione dopo libere elezioni;
simulazione di difesa popolare nonviolenta che coinvolse l'intero comune di Boves in Italia;
predisposizione e studio da parte di organismi statali o istituzionali di modelli di difesa popolare nonviolenta in Olanda, Austria, Australia;
caduta dei regimi comunisti dell'Est. Tutti, tranne la Romania, senza l'utilizzo preordinato della violenza, 1989;
separazione di Estonia, Lituania e Lettonia con uso prevalente di azioni nonviolente;
resistenza vittoriosa al colpo di stato in URSS contro Gorbaciov e le sue riforme, 1991;
iniziativa, ripetuta per diversi anni, contro la presenza del Salone Navale Bellico a Genova. Alla fine il Salone non fu più organizzato a Genova;
iniziative pacifiste nei territori della ex-Jugoslavia organizzate principalmente dai Beati i Costruttori di Pace di Padova. La prima marcia si svolse nel dicembre 1992 e portò 500 pacifisti a Sarajevo; la seconda nell'agosto del 1993, denominata Mir Sada, coinvolse 2.000 persone, ma non giunse a Sarajevo, solo a Prozor e a Mostar.

La nonviolenza per dispiegarsi ha bisogno che alla base ci sia un grosso lavoro organizzativo, di formazione e di addestramento. Sono quindi necessari mezzi, uomini, risorse economiche per poter sperimentare questi metodi.